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La vocazione degli anziani nella Chiesa

Card. José Tolentino de Mendonça
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Congresso Internazionale di pastorale degli anziani

 

La ricchezza degli anziani

Roma, 29-31 gennaio 2020

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Intervento di Sua Eminenza Card. José Tolentino de Mendonça

La vocazione degli anziani nella Chiesa

Spesso mi domando quali criteri utilizzeremmo se dovessimo scegliere noi i protagonisti della Storia della Salvezza. Se dovessimo individuare un personaggio per iniziare la Storia della Salvezza, affinché viva la vasta avventura della fede e sia il depositario della promessa, affinché esca dalla sua terra ed emigri verso una terra ignota, passando per tante situazioni esistenzialmente esigenti, la nostra scelta probabilmente cadrebbe su di un giovane. Qualcuno – penseremmo noi – dotato della forza vitale, dell’energia, dell’apertura e della capacità di sognare che una simile avventura richiede. E invece Dio ci sorprende. Dio sceglie un protagonista del tutto improbabile per questa grande storia che ci include tutti, poiché egli rivolge la sua chiamata nientemeno che a un anziano. Ci siamo abituati a pensare che gli anziani si trovano in una sorta di tempo supplementare, come se avessero smesso di agire direttamente nella costruzione della storia. Dio non la pensa così. Leggendo la Storia della Salvezza ci accorgiamo che degli anziani Dio fa dei veri protagonisti.

Nel capitolo 12 della Genesi possiamo infatti leggere: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò… e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. […] Abram aveva settantacinque anni» (Gen 12,1-4).

Chiamato da Dio ad avviare una nuova Storia quando pensava che la sua fosse già terminata, Abramo sperimenterà quella parola come una sfida inattesa che lo rilancia nella grande avventura della fede. La sua vita sembrava conclusa. Sicuramente pensava di avere compiuto la sua missione, e che la sua esistenza apparteneva ormai al passato più che al presente o al futuro. Eppure, Dio viene dire a questo anziano – e, in lui, viene dire a tutti gli anziani – che il suo cammino è carico di futuro.

Che cosa chiede, Dio, ad Abramo? Gli chiede tre cose fondamentali che credo possano servire da mappa alla nostra riflessione sulla vocazione degli anziani nella Chiesa. Il modello d’Abramo può effettivamente darci un grande aiuto.

1)   Per prima cosa, Dio chiede ad Abramo la realizzazione di un’esperienza profonda di fede

C’è un detto nordamericano che recita: “Growing old is no fun” (“Invecchiare non è divertente”). È vero. Le nostre società che dogmatizzano la produttività come unica moneta di valore maltrattano la vecchiaia, senza capire né osservare questa stagione della vita, che è così lasciata nell’abbandono. Essere vecchi è un lavoro esigente: vuol dire cominciare da zero in qualsiasi momento, e farlo spesso, costretti a reimparare cose basilari che addirittura avevamo insegnato agli altri per tutta la vita. Essere vecchi è fare quello che facevamo prima, ma più piano. Essere vecchi è rinunciare molte volte e, al tempo stesso, avere l’inspiegabile caparbietà di ricominciare. Essere vecchi è mostrare, nell’estremo della nostra fragilità, che abbiamo sette vite. Essere vecchi è fare di più con meno. Essere vecchi è capire il valore delle briciole, che sono state e sempre sono il nostro grande alimento. Essere vecchi è, in molti casi, lottare per sostenere una conversazione con un quinto del vocabolario ma con gli occhi che parlano cinquanta volte di più, per chi sa ascoltarli. Essere vecchi è lottare tutti i giorni per mantenere vivo l’inestinguibile filo dell’amore. Sì, il proverbio ha ragione: “Growing old is no fun”. Ma c’è una cosa che non dice: che essere vecchi è anche uno straordinario miracolo di amore e di resilienza. La terza età non è la fine. Vista con gli occhi della fede, può essere l’inizio.

Ad Abramo, Dio chiede di rompere con la vita sedentaria e di mettersi a vivere questa sorta di nomadismo che è la fede. E Abramo che cosa impara, quando comincia ad essere un viandante? Impara la fiducia. Non sa dove sia esattamente la terra in cui Dio lo manda: non si tratta di una destinazione prefissata, chiara in partenza. In fondo, deve vivere ogni giorno nella fiducia, stretto alla promessa, in sospeso come se la sua vita dipendesse da questo. È questa la fede. La fede è vivere esposti, è vivere senza ripari, è vivere nell’apertura; ma è vivere con fiducia, nella dipendenza da una Parola. Quando Dio prende l’iniziativa, quell’uomo non rompe unicamente con lo scenario geografico e familiare che era tutta la sua sicurezza, rompe anche con ciò che esso significava: la protezione di una cittadinanza, di una cornice familiare stabile, di un’appartenenza. Ora, la Fede comincia con l’essere precisamente la sfida a trascendere il quadro individuale della nostra esistenza o le forme asseritamente definitive che noi abbiamo costruito attorno ad essa, e ad aprirci fino in fondo all’impatto delle sorprese di Dio. La Fede ci disinstalla per farci vivere nella dipendenza da Dio. Non esistono parcheggi spirituali. C’è anzi la chiamata ininterrotta a sperimentare l’itineranza di una promessa che è più grande di noi.

Non è casuale che il modello della fede biblica sia un anziano che diventa viaggiatore, un pensionato che si mette per strada, un uomo che di per sé poteva vivere delle rendite dei suoi beni e al quale Dio fa osservare la vastità del cielo, come fosse un ragazzo innamorato. Ma la Fede ci vuole così, il credente è così: un pellegrino con le mani povere e vuote, e gli occhi colmi.

Pensiamo alla storia di Abramo, un uomo già anziano sposato con una donna, Sara, che soffriva di sterilità. Non avevano figli, e gli viene promesso un figlio. Cosicché, in questo momento, per Abramo è ancora relativamente semplice credere, poiché vede nella sua vita i segni positivi di Dio. Percepisce che c’è una corrispondenza alla fiducia che egli ha in Dio: Dio lo ricompensa. Ma credere non è solo questo. Non si crede solo quando abbiamo le garanzie assicurate. Credere è confidare anche quando ci ritroviamo senza appoggio. La fiducia si fa sempre più esigente. In questa relazione, Dio va chiedendoci sempre di più. E viene il momento in cui non riponiamo più la nostra fiducia in Dio per le cose che Dio ci dà, ma confidiamo in Dio a motivo di Dio stesso. In questo senso la fede è anche prova. E la prova nasce in fondo dalla questione seguente: sono io disponibile a credere in Dio senza garanzie? Sono disponibile a credere in Dio andando al di là delle garanzie e relativizzandole completamente? Abramo ha quel figlio, Isacco; è il suo unico figlio e gli viene fatta una proposta assolutamente assurda: «Abramo, sacrificami il tuo unico figlio». Possiamo avvertire il dramma che si consumava nel cuore di Abramo: non ci capiva niente, sapeva di camminare senza la terra sotto i piedi, ma continuò ad ascendere quella montagna, con l’unica speranza che in qualche modo, in una maniera che lui non conosceva, Dio doveva manifestarsi. E, con il cuore completamente gettato in quella speranza, Abramo udì le parole dell’Angelo del Signore: «Abramo, non mi sacrificare tuo figlio, non è questo che io voglio, quello che io voglio è la tua fede, la tua fede». Il filosofo Sören Kierkegaard interpretò questo testo biblico spiegandolo cosi: «La verità non è qualcosa di esterno, che scopriamo attraversi proposizioni fredde e impersonali, ma qualcosa che sperimentiamo nel nostro interiore, in maniera personale». La Fede è questa fiducia personale posta in Dio e che sorpassa ogni altra cosa. Abramo ci insegna che la Fede è un modo di esistere. Davanti all’incomprensibile disegno di Dio, egli lascia tutto in sospeso, tranne la relazione con Dio. Anche noi, dal fondo della nostra povertà, siamo chiamati a dire: «Il Signore provvederà».

 

 

La Chiesa necessita che gli anziani diventino convinti maestri della fede. Al n. 108 della Evangelii gaudium, papa Francesco insiste sul fatto che occorre ascoltare gli anziani, poiché essi apportano «la memoria e la saggezza dell’esperienza». La fede degli anziani, come la fede di Abramo, non è una fede astratta, fatta di categorie disincarnate. Al contrario: è una fede narrativa, raccontata in prima persona, passata per la prova delle vicende e dei contrasti della storia, maturata nel cuore. Nell’Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit, il Santo Padre ricorda pure che «la Bibbia invita sempre ad avere un profondo rispetto per gli anziani, perché possiedono un patrimonio di esperienza, hanno sperimentato i successi e i fallimenti, le gioie e i grandi dolori della vita, le speranze e le delusioni, e nel silenzio del loro cuore custodiscono tante storie che possono aiutarci a non sbagliare e a non essere ingannati da falsi miraggi» (n. 16). E ricorda che «nel Sinodo uno degli uditori, un giovane delle Isole Samoa, ha detto che la Chiesa è una canoa, in cui gli anziani aiutano a mantenere la rotta interpretando la posizione delle stelle e i giovani remano con forza immaginando ciò che li attende più in là» (n. 201). È una bella immagine ecclesiale, questa che presenta gli anziani come coloro che interpretano la posizione delle stelle.

«Il Signore lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle”». La Fede ci porta all’esterno, è un’uscita dalle nostre visioni frammentarie, un rompere con le nostre prospettive.

«Guarda in cielo». Dobbiamo aprire le finestre che si aprono sulla vastità del cielo, levare i nostri occhi al di là di quello che è possibile riferire, contemplare l’immensità di Dio e del suo amore. Alzare occhi stupiti e fiduciosi al cielo è l’atteggiamento credente. Che i nostri occhi fatti per guardare le stelle non si spengano a forza di fissare noi stessi e la punta delle nostre scarpe.

2)   Abramo vive la sua fede come forma di ospitalità

Un esempio di grande chiarezza è quello dell’incontro di Mamre: «Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoiocchi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”» (Gen 18,1-5).

Era l’ora più calda, nel deserto. Chi sia passato qualche volta da quelle parti sa che la cosa più prudente da farsi in quel momento del giorno è riparare all’ombra ed evitare ogni movimento. Ora, Abramo «corre dall’ingresso della tenda» incontro ai visitatori. Nessuno ha chiesto niente: è Abramo che prende l’iniziativa di accogliere. Tante volte noi siamo anche disposti ad accogliere, ma rimaniamo in attesa di una richiesta. Abramo anticipa, ed è questa la vera ospitalità. E lo fa in modo gratuito, lasciando l’altro libero: «Quando avrete recuperato le forze, potrete proseguire per la vostra strada». La sua unica preoccupazione è per noi una sfida e una responsabilità: «È ben per questo che siete passati dal vostro servo». Ci sono tante persone che passano per la nostra vita… È importante che nell’ospitalità, nel servizio e nel dono avvertano che non invano sono passate da noi.

La Chiesa ha bisogno che gli anziani divengano maestri di ospitalità.

Tempo fa, qualcuno mi ha parlato di un gioco abbastanza elementare che viene utilizzato nelle scuole quando si intende introdurre la questione delle scelte etiche. Una nave, con i suoi dieci occupanti, sta affondando. La nave è dotata di una scialuppa di salvataggio pronta a entrare in funzione, purtroppo non c’è posto per tutti. La scialuppa può accogliere solo sette persone. È quindi urgente determinare chi vi potrà salire. Che scelta drammatica! Naturalmente il gioco vale soprattutto per aiutare a pensare eticamente.

Mi ha colpito un dato che i ricercatori rilevano. Quanto più giovani sono gli alunni ai quali il gioco viene proposto, tanto più prevedibile è la soluzione: se tra i passeggeri della nave ci sono dei nonni, questi sono i primi a essere salvati. Siano essi molto avanzati in età o in cattiva salute, i nonni sono i primi della lista. E ci domandiamo: perché i nonni? Che cosa sono un nonno, una nonna, nel percorso di una vita, quando noi, alla stregua di semi, ci troviamo immersi nel lungo processo di germinazione o iniziamo a ricevere gli insegnamenti fondamentali? Qual è il loro contributo indispensabile? Perché i più giovani sentono che i nonni devono essere indiscutibilmente salvati? I nonni sono maestri di un’arte splendida e rara: l’arte di essere. I nonni sanno trasformare un normale incontro quotidiano in una appetitosa celebrazione. Sanno guardare senza fretta, vedendo gli esseri umani speranzosamente più avanti. Sanno dare valore alle cose da niente. Non ritengono che sia tempo perso intrattenersi con i nipoti, ben al contrario. Sanno che l’amore si nutre con questa condivisione gratuita. I nonni sono dolcemente silenziosi, anche se molto chiacchieroni. I nonni sembrano distratti, e questo è bello. I nonni camminano senza fretta. Hanno una saggezza che si esprime con storie calorose, non a concetti. Hanno una memoria che pare inesauribile, piena di avventure, di bagatelle e dettagli per divertire. I nonni sono già stati tante volte nei posti in cui portano i nipoti per la prima volta. Attirano l’attenzione su cose incalcolabili, come la forma di una nuvola o il colore differente che acquistano le foglie. Insegnano con serenità, mettendosi a fianco. Hanno il senso delle piccole cose e abbracci dove stanno quelle grandi. Non separano, come il resto delle persone, quello che è utile da quanto è inutile. Offrono il sicuro corrimano del loro affetto, sempre disponibili. Indovinano quello che i nipoti non dicono, senza confondersi con la sua confusione. Quando non sono con loro, ripetono orgogliosi agli amici le frasi che gli hanno detto. Credo che, se i bimbi sentono così intensamente che debbono salvare i nonni, è perché percepiscono, fin da molto piccoli, che sono salvati da loro. Questa si chiama arte dell’ospitalità, che è una forma impegnativa dell’amore.

La chiesa oggi ha bisogno che i nonni siano nonni non solo per i propri nipoti ma che lo siano nel rapporto con tutti, soprattutto con i più giovani e i più bisognosi. Che siano, insomma, nonni a tempo pieno. I nonni sono una risorsa spirituale che ispira e rinforza evangelicamente la nostra comunità ecclesiale. In una cultura come la nostra, dove prevale un drammatico senso di orfanità, gli anziani sono chiamati a essere restauratori dei legami, attraverso l’esercizio della maternità e della paternità spirituali.

3)  Abramo diventa padre di molte nazioni attivando la forza generativa della trasmissione della fede

Oggi siamo immersi, in quanto civiltà, in una crisi di trasmissione. Senza una vera alleanza tra generazioni, come sostiene con insistenza papa Francesco, noi non sappiamo da dove veniamo, di cosa siamo eredi e qual è davvero la nostra storia. Il sentimento dominante oggi nelle nuove generazioni è di non essere state confermate da quelle precedenti. Nessuno dice loro “crediamo in voi”, “abbiamo fiducia nelle vostre capacità”, “vi consegniamo il mondo”. Le nuove generazioni si guardano indietro e non vedono testimoni, trasmettitori, mediatori per il passaggio che devono fare da una riva all’altra. È una crisi di trasmissione che è vissuta a tutti i livelli: nella famiglia, nelle istituzioni, nella Chiesa, nella società nel suo insieme. Nell’era della comunicazione rimane tanto da dirsi, probabilmente l’essenziale. Viviamo sommersi da messaggi, però ammalati di una incapacità di interpretare la vita in profondità, di stabilirne i nessi in forma esplicita. Penso spesso all’importanza che per esempio ha nella vita di Gesù quella scena di investitura che è rappresentata dal battesimo, quando i cieli si squarciano e si ode la voce dal cielo: «Tu sei il mio Figlio amato: in te ho posto il mio amore» (Mc 1,11). È una parola di conferma oggi troppo taciuta, eppure così necessaria perché ognuno possa diventare quello che è. Senza trasmissione, ognuno di noi conosce meno la propria identità. Perché la trasmissione ci rivela non quello che possiamo imparare, ma quello che siamo. Ci spiega chiaramente che noi non siamo l’origine di noi stessi, ma siamo ciò che riceviamo dagli altri, siamo espressione del dono, una preziosa eredità che ci trascende. Trasmettere consiste nell’integrare l’essere umano in una storia. È dirgli: tu sei questo, sei parte di un passato o di un futuro, sei coprotagonista di una storia comune. L’essere umano non necessita solo di educazione scolastica: ha bisogno anche di trasmissione vitale.

Per questo, nel contesto del Sinodo sui giovani, papa Francesco ha citato un delizioso proverbio egiziano che dice: “Se nella tua casa non c’è l’anziano, compralo, perché ti servirà”.

Ma non sono solo i giovani a dover cercare gli anziani. Anche gli anziani hanno la missione fondamentale di cercare i giovani e, attraverso la paternità e la maternità spirituali, generare in loro vita vera. Dio chiede agli anziani di essere protagonisti veri.

Dice il libro del profeta Gioele: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni» (Gl 3,1). Alla Chiesa del secolo XXI servono anziani che sognino.

 

 

 

 

Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni» (Gl 3,1). Alla Chiesa del secolo XXI servono anziani che sognino.

30 gennaio 2020